Newsletter 53 - pdf - Luglio 2016
DA   PRATO AL BANGLADESH… DI CLASSE 
SI PIANGE PER UN PUGNO DI IMPRENDITORI DEL «MADE IN BANGLADESH» UCCISI, MA NON SI FA PAROLA SULLO STILLICIDIO DI MIGLIAIA   DI SCHIAVI E BAMBINI CHE MUOIONO IN QUEL GENERE DI FABBRICHE. 
 Dopo   la rivolta della «comunità cinese» di Prato, ecco, come per un fatale   contrappasso, la strage di imprenditori tessili italiani a Dhaka, capitale   del «Made in Bangladesh»! E c’è anche un made in Italy, fatto anche di   operai schiavizzati di cui non si ricorda più nessuno quando, dal Bangladesh,   passando per la Turchia, arrivano fino a Sant’Antimo e Casandrino (in   provincia di Napoli) attratti dall’esca di un buon salario per poi ritrovarsi   schiavi come Mizan, 32 anni, moglie di 23 e bambina di pochi mesi rimaste a   Dhaka: «Lavoravo dalle sette del mattino fino alle nove e mezza di sera,   anche la domenica. Non avevo un attimo di tempo e quando ho chiesto i soldi   che mi spettavano sono stato aggredito. Ho visto ragazzi arrivare con un   viaggio organizzato in Bangladesh. Hanno pagato 10-12 mila euro per partire e   una volta arrivati qui non hanno trovato niente di quello che gli era stato   promesso». 1 Prato, a sua volta, è centro tradizionale   dell’industria tessile «made in Italy», passato in larga parte alla   rampante imprenditoria cinese, e dove già un disastroso incendio mortifero,   avvenuto lo stesso anno 2013 di quello del Raza Plana in Bangladesh,   anch’esso dovuto all’assenza di sicurezza a salvaguardia degli schiavi cinesi   che lavoravano e dormivano nei loculi del soppalco di una delle fabbriche-dormitorio   del Macrolotto-1, dove se ne contavano almeno 2000, la quasi metà delle 5000   fabbriche «orientali», cosiddette dalla camera di commercio, e addette   all’abbigliamento.
Dopo   la rivolta della «comunità cinese» di Prato, ecco, come per un fatale   contrappasso, la strage di imprenditori tessili italiani a Dhaka, capitale   del «Made in Bangladesh»! E c’è anche un made in Italy, fatto anche di   operai schiavizzati di cui non si ricorda più nessuno quando, dal Bangladesh,   passando per la Turchia, arrivano fino a Sant’Antimo e Casandrino (in   provincia di Napoli) attratti dall’esca di un buon salario per poi ritrovarsi   schiavi come Mizan, 32 anni, moglie di 23 e bambina di pochi mesi rimaste a   Dhaka: «Lavoravo dalle sette del mattino fino alle nove e mezza di sera,   anche la domenica. Non avevo un attimo di tempo e quando ho chiesto i soldi   che mi spettavano sono stato aggredito. Ho visto ragazzi arrivare con un   viaggio organizzato in Bangladesh. Hanno pagato 10-12 mila euro per partire e   una volta arrivati qui non hanno trovato niente di quello che gli era stato   promesso». 1 Prato, a sua volta, è centro tradizionale   dell’industria tessile «made in Italy», passato in larga parte alla   rampante imprenditoria cinese, e dove già un disastroso incendio mortifero,   avvenuto lo stesso anno 2013 di quello del Raza Plana in Bangladesh,   anch’esso dovuto all’assenza di sicurezza a salvaguardia degli schiavi cinesi   che lavoravano e dormivano nei loculi del soppalco di una delle fabbriche-dormitorio   del Macrolotto-1, dove se ne contavano almeno 2000, la quasi metà delle 5000   fabbriche «orientali», cosiddette dalla camera di commercio, e addette   all’abbigliamento. Ma   la sarabanda mediatica non fa parola di ciò che succede realmente dietro le   quinte di quella che è ormai diventata una semplice questione di ordine   pubblico e, per il fisco, è solo roba da tassare allegramente. Per gli   schiavi che ci crepano¼chi se ne frega! Stessa pantomima nella vicenda della   strage all’aeroporto di Dhaka: chi se ne frega degli schiavi sacrificati alla   dinamica di un PIL del +6% all’anno, mentre in Italia si viaggia a zero!   Infatti, nell’aprile 2013, un incendio nel palazzo di otto piani, il Raza   Plana, provocò 1100 morti e ancora più feriti. Quello del Raza Plana è stato   soltanto uno dei più disastrosi della serie, preceduto da un altro del   novembre 2012 nella fabbrica Tazreen Fashions, dintorni di Dhaka, in cui   perirono almeno 112 persone. Subito dopo il disastro del Raza Plana, in   ottobre, un altro incendio causava la morte di nove persone e il ferimento di   una cinquantina, in un’altra fabbrica tessile stavolta nel Bangladesh   centrale. 
Secondo1 SERENA   GRASSIA, Inchiesta Schiavi d’Italia, del 1.12. 2014, I   lavoratori del tessile ostaggio di sfruttatori e caporali, in   http://www.fainotizia.it/inchiesta/26-11-2014/schiavi-d-italia-lavoratori-tessile-ostaggio-di%20sfruttatori-e%20caporali l’International   Labor Rights Forum, più di 1800 persone sono morte a causa di incendi e   crolli di fabbriche d’abbigliamento in Bangladesh dal 2005 al 2013. Da allora   nessuno vi ha fatto più niente per superare questa folle condizione di   lavoro. Anzi, nonostante ciò, negli ultimi anni molte produzioni tessili   sono state delocalizzate dalla Cina, dove un operaio percepiva, sempre nel   2013, circa 200 € al mese, verso la Cambogia, dove si andava sui 46 €, e per   l’appunto in Bangladesh che diventa il terzo produttore tessile al mondo.
Al   Raza Plana avevano sede varie fabbriche tessili, i cui dipendenti lavoravano   in assenza delle più elementari condizioni di sicurezza, producevano capi   d’abbigliamento per conto di multinazionali occidentali, tra cui Benetton,   che negò la sua relazione al disastro, smentita però miseramente perché tra   le macerie e i morti furono trovate magliette col memorabile marchio «United   Colors of Benetton» e bolle d’ordine. Son cose note ormai, specie   all’imprenditoria rampante, che vi si lavora tutti i giorni dall’alba al   tramonto. I bambini di età compresa tra i 10 e i 14 anni costretti a lavorare   in Bangladesh sono circa 1 milione secondo l’UNICEF, ma il numero, in realtà,   sarebbe molto più alto, stante il fatto che il carattere nascosto del lavoro   schiavile è una regola cinica e discreta in tutto il mondo, anche dove   ipocritamente imperversa il legalitarismo, più sbandierato che attuato, come   in Occidente, specialmente in Italia dove si escogitano leggi contro   l’induzione alla schiavitù e si condanna il caporalato, mentre questi   fenomeni crescono e si estendono a tutte le filiere dell’agricoltura,   dell’industria e dei trasporti. 
Il governo del Bangladesh si profonde da sempre come   tutti i governi di questi paesi cosiddetti poveri o emergenti, ad attrarre   capitali dai paesi capitalisti, con ogni genere di incentivi ed esenzioni   fiscali, non ingerenze sindacali e chiudendo anche due occhi sulle condizioni   di lavoro e sulle paghe da fame. Persino gli accordi in sede ONU sulla   sicurezza nei luoghi di lavoro restano declamazioni trascendentali e senza   pratica vincolante e sanzionatoria come quelli di Ruggie e Principi Guida   dell’ONU su Business e Diritti Umani. 
In   quel 2013, il Bangladesh aveva una popolazione di 156,6 milioni di ab, di cui   15 milioni solo nella   capitale Dhaka, e oggi siamo a circa 169 milioni di abitanti in un territorio   stretto tra l’India e il   Pakistan occidentale, da cui si è reso indipendente nel 1971, e con una   densità abitativa tra le più   alte al mondo, poggiando la sua economia neocoloniale, per l’80%, sull’export   di tutta la filiera dell’abbigliamento: in soldoni, per le 5000 aziende   ufficiali, un bel giro d’affari di 18 miliardollari annui, che nel 2020 si   prevede che triplichi! Terzo paese al mondo per la produzione tessile dopo Cina   e Vietnam, il Bangladesh tesse ed esporta abbigliamento in forma «terzista»,   per il capitale dei grandi marchi come Gap, Primark, Walmart, American   Apparel e altri, per un valore annuo complessivo di 14 miliardi di euro nel   2013. Eppure quasi metà della popolazione vive al di sotto della soglia della   povertà, con meno di 1,25 $ al giorno. È esattamente questa condizione che   induce molta classe operaia femminile e minorenne ad accettare   («liberamente»?) questa coercizione al lavoro schiavista lavorando in   fabbriche a rischio e con paghe che non vincono la fame ma offrono enormi   possibilità di arricchimento a imprenditori rampanti della bergamasca e alle   multinazionali.
L’export,   che nel 2013 per il 60% era diretto ai mercati dell’Unione Europea, darebbe   lavoro, ufficialmente, almeno a tre milioni di persone, ma in realtà molte   fabbriche, soprattutto di jeans, sono clandestine, come gli schiavi che ci   lavorano, per l’80% donne. La cintura industriale di Dhaka, 40km a nord-est,   è in continua espansione, trattandosi di una «zona alta», al riparo dalle frequenti   alluvioni. In zona, fra l’altro è situata la località Zirani dove sorge un   Centro Gesù Lavoratore, attivato da missionari del PIME (Pontificio Istituto   Missioni Estere) e suore dell’Immacolata, in una zona di 30kmq dove sorgono   una quarantina di aziende, quasi tutte tessili, che forniscono prodotti   destinati quasi totalmente all’esportazione: in alcune, ci lavorano dai 2ai 5   mila dipendenti, maggiormente donne, e migliaia sono i bambini, costretti a   cucire jeans per 18 ore, a 20 pence (poco più di 28 centesimi di €!) al   giorno. Soltanto dopo dure lotte, nel 2010, lo stipendio minimo è stato   aumentato da 19€ a 35€ al mese, o, secondo altre fonti, in $, senza tuttavia   raggiungere i 37$ al mese, contro i 150 del Made in China e i 100 di   Indonesia e Messico. 
La   ragione del fatto che tanto capitale made in Italy (come Benetton e   probabilmente gli stessi imprenditori coinvolti nella strage di Dhaka) vada   ad investire in Bangladesh è proprio l’esigenza di ossigenare di valore reale   l’enorme bolla di trilioni di capitale fittizio che si aggira ormai dalla crisi   del 2007-2008 su tutti i continenti, esigenza che non si soddisfa più col   prelievo di plusvalore relativo dato dall’innovazione tecnologica elevando   la composizione organica del capitale e il saggio di profitto, ma con   l’enorme convenienza sul prezzo infimo e schiavo della forza-lavoro. Gli   italiani, come gli altri imprenditori, anche di più grosso calibro, non vanno   in India, Pakistan e Bangladesh per i costumi e per la bella miseria del   paesaggio. Molti italiani vanno a farsi imprenditori in Bangladesh   nonostante anzi proprio per il fatto che è tra i paesi più poveri del mondo.   Ma cosa importa? Basta poco a comprare questo genere di schiavi da cui   succhiare lavoro a gogò, dove la vita non vale nulla. Qui siamo nel cuore   miserabile del supersfruttamento schiavista della specie umana più debole,   quella di donne e bambini, e dove si tocca con mano a quanto poco servano le   continue campagne di informazione, tanto meno le missionarie di santa madre   chiesa, da sempre onnipresenti. Qui è l’inferno! Altro che paradiso della   carità! Un giovane neo-assunto vi riceve una paga di circa 2mila taka al mese   (20 €), per sei giorni di lavoro a settimana. Per risparmiare, gli operai   vivono in baracche vicinissime all’azienda, con servizi igienici comuni ogni   50-60 persone e una cucina a gas utilizzata a turno. Di fatto, molti si   ritrovano a passare la vita in fabbrica, in un ambiente profondamente   degradato dal punto di vista sia sociale che ambientale. Italiani, c’è posto   per i vostri denari! 
Fonti:   
http://www.lavocedinewyork.com/onu/2013/10/20/bangladesh-dove-di-lavoro-si-continua-amorire/   
http://www.terranuova.it/Consumo-critico/I-piccoli-schiavi-del-Bangladesh   
http://www.lastampa.it/2014/04/30/vaticaninsider/ita/nel-mondo/bangladesh-alla-periferia-didhaka-unoasi-per-i-nuovi-schiavi-FqOH5IDc5e9oseel449U5K/pagina.html   
(a cura di PonSinMor, dante lepore)